Che cosa rappresenta un codice a barre alle soglie del 2020, dove spazi virtuali crescono esponenzialmente moltiplicando se stessi in contesti e relazioni sempre nuove ?
Le merci, le monete, tutto nella nostra epoca subisce un processo di smaterializzazione costante, allora che senso ha usare il simbolo dell’opulenza di massa, della merce per eccellenza, per una realtà nuova? Senso nostalgico o soluzione vintage per un epoca ormai alla fine?
Sono tante le domande che ci poniamo. E per fortuna mi viene da aggiungere! Le domande rappresentano il primo step che ci spinge verso la soluzione di un problema; ogni invenzione, ogni scoperta avviene solo dopo essersi posti un interrogativo.
La smaterializzazione della nostra epoca e i riflessi cibernetici del mondo fisico, sono complici in un gioco che sfugge alla capacità di calcolo. Possono quindi far pensare subito ad un impoverimento e svalutazione della nostra realtà, oppure all’attivazione di nuove sinapsi in una rete neurale dai confini inimmaginabili. Nella realtà duale che viviamo sono senz’altro entrambe le cose!
Viene in mente una similitudine, come una volta il mondo antico era in grado di leggere i segnali della natura, ora algoritmi sempre più complessi cercano di interpretare il mondo virtuale della rete, che è poi un riflesso della realtà della natura, cercando di catturarne attimi in una condizione sfuggevole. La domanda che sorge spontanea: è utile tutto questo?
La nostra realtà nasce nella piena consapevolezza di questi aspetti, scegliere il codice a barre come simbolo del nostro fare, non è una scelta anacronistica, siamo i primi ad affermare che lo stesso periodo post-industriale sia un ricordo sbiadito.


Addentrati nel nostro tempo non sappiamo se il virtuale abbia già superato il reale o se ne possa essere possibile un suo totale surclassamento, pena a nostro avviso un’estinzione di massa! È certo che noi vogliamo essere presenti al nostro tempo e l’azione che porta al “fare”, rappresenta il senso stesso della nostra interpretazione.
Il codice a barre viene applicato per la prima voltanel 1974 e nasce dall’esigenza di codificare, di leggere quante più informazioni possibili, come a presagio dei nostri tempi. Tempi caratterizzati dal proliferare di dispositivi fatti di schermi, dove le immagini e le informazioni si ripetono senza fine e possono essere evocate in qualsiasi momento vogliamo, fungendo anche da tramite tra la nostra vita e quella degli altri.
In questo scenario lo sguardo sembra avere tutto quello che possa desiderare, immagini in abbondanza, una realtà senza crisi insomma; allora ogni approccio nuovo può sembrare superfluo, perché la potenza rimescolatrice sembra più forte di quella creatrice.
Abbiamo scelto il codice a barre, un po’ per celebrare un’epoca, un po’ per criticare, ma soprattutto per rendere chiaro fin da subito il nostro approccio al fare. Lo sguardo si sposta sulla fantasia e l’immaginazione e il fare rappresenta lo strumento per trasformarle in realtà. Ironia della sorte, saremo noi i primi a passare per spazi virtuali: quelli della progettazione 3D.
La particella “co” si fonde alla parola design, dando vita al CODESIGN.
Il “co” può avere numerosi significati: il co del come, del collaborare, del cooperare, di company affiancato alla parola design, assume molteplici significati; inoltre una volta unite insieme co+design hanno una valenza maggiore e possono essere suddivise in code+sign, codice segno, quasi a rappresentare la particella più piccola di un messaggio, oppure l’atomo di un prodotto.
Il nostro stare dalla parte delle aziende, non è altro che stare dalla parte delle persone, che sono poi come atomi di aziende più o meno complesse. Come realtà consulenziale ci facciamo interpreti del vostro sguardo, riproducendo per voi in uno spazio inizialmente virtuale, le esigenze, il gusto e una forma che è soprattutto un messaggio. Se la forma non vince su tutto non ha senso fare cose senza senso, sembra un gioco di parole, ma in realtà non lo è, serve per distinguere due differenti metodologie di approccio, quella del bello in quanto tale e quella del bello funzionale. È ovvio che esistano le infinite sfumature, ma queste sono forse le due categorie essenziali quando ci approcciamo ad una attività creativa. Quale sia l’aproccio migliore fra i due è inutile saperlo, anche se così su due piedi possiamo essere spinti ad affermare che sia l’utile ad essere in vantaggio sul bello, ma non è così, perché la perfezione della bellezza è spesso il veicolo stesso di nuove idee, se una bellezza è perfetta è impossibile che non racchiuda nel suo interno un messaggio, seppur astratto o nascosto c’è, ne è la prova l’emozione che può suscitare in noi. Se non vengono soddisfatte una delle due condizioni di cui sopra, possiamo definire senza dubbio la faccenda superflua.
La prima esperienza utile è quella dell’anima che viene nutrita attraverso i suoi stessi sensi, ed ecco forse manifestarsi davanti alla nostra comprensione la prima relazione fra un universo reale ed uno virtuale. Noi possiamo affermare di stare proprio dalla parte di questa anima, se è lei che permette di emozionarci. Ciò può essere rintracciabile dietro ogni cosa, complessa o semplice che sia, certo è vero che dove lo sgurdo si perde le suggestioni sono più facili, ma spesso queste sono anche ingannevoli. Un elemento, un dettaglio nella semplicità, possono essere anche più complesse di megastrutture. È l’equilibrio l’elemento chiave, quell’equilibrio a cui ogni essere umano ambisce, ma è spesso è arbitrario, soggettivo. Ne sono testimonianza tutte le cose brutte di questo mondo.
Allora è tutto un equilibrio sopra la follia, parafrasando un noto rocker italiano?
Noi di certo non abbiamo la presunzione di essere dispensatori di equilibrio, ma possiamo affermare che i nostri sguardi ne sono costantemente ed avidamente alla ricerca e siamo ansiosi di condividerli con voi.

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